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Immagine del redattoreAldostefano Marino

Cenere, Grazia Deledda

Aggiornamento: 22 dic 2021

Ci aspettiamo sempre che la letteratura abbia qualcosa da dirci, ma poi, poche volte ci spingiamo realmente fino alla comprensione di ciò che le si nasconde dietro. È il caso dei libri di Grazia Deledda, che se per tanto tempo hanno saputo dire molto alle generazioni che li hanno amati –persino al di là del nostro Continente – soffrono di una precoce damnatio memoriae.


La figura di Deledda, dunque, fin da quando comincia a esistere, si destreggia grazie alla propria forza e al carattere determinato. Deledda ha sempre sognato di essere una scrittrice; si potrebbe dire che lo abbia addirittura preteso. E di sicuro è questa la prima ragione per cui il nome di Grazia Deledda merita di essere ricordato.

Perché, prima di tutto, per comprendere appieno le ragioni della scarsa reperibilità delle opere di Deledda, è necessario porre il punto di partenza dell’indagine nel momento in cui una spessa ombra si è posata sul suo nome. Accadde ben prima di quella vittoria del Nobel – che anziché darle luce, ingiustamente la oscurerà – e forse addirittura quando Graziedda, altra non era che una fanciullina piena di sogni.

Un carattere forte quello di Deledda immatura, un carattere che la condusse allo scontro con una società infossata nelle proprie tradizioni e convenzioni sociali. Perché il destino di Grazia pare compiersi a partire dal momento in cui, ancora in tenera età, esprime il desiderio di diventare una scrittrice.


La famiglia la sostiene, soprattutto il padre: e forse, in realtà solamente lui. Perché nel momento della sua scomparsa, quando alla madre è data possibilità di prendere il controllo di tutto, è proprio lei che tenta di togliere dalla testa di Grazia quelle idee particolari.


Idee particolari che in realtà non vanno molto lontano dalle ambizioni di molti bambini e molte bambine, ma che allora, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in testa e in bocca a una bambina che avrebbe dovuto metter su famiglia e occuparsi della casa, sarebbero – e infatti sono! – suonate strane e minacciose a un’intera Nazione.

Per comprendere la grandezza delle sue intenzioni e la forza dei risultati, basterà soffermarsi a riflettere sul fatto che Grazia Deledda sia riuscita a spingersi ben oltre l’arretratezza e l’isolamento della Sardegna. Se ci pensate, la strada è difficile persino oggi, per chiunque desideri scrivere, o collaborare con i giornali e il mondo dell’informazione. Provate a immaginarvi che cosa potesse significare allora; una bambina che, tutta sola, e senza il supporto e l’aiuto di nessuno, arriverà a scrivere per i giornali di Roma, fino a spingersi in quella città e sperare per sé un futuro diverso rispetto a quello che è stato scritto per lei.


È naturale dunque che quando sarà proprio quella bambina, ormai adulta, a portarsi a casa un Premio Nobel (1926), sottraendolo a Pirandello e D’Annunzio, gli invidiosi abbiano a raccontare che le sia stato affidato per non far vincere i suoi avversari. E ancora, addirittura, che Deledda avesse chissà quale relazione con il duce in persona, Benito Mussolini.


Roma la si ritrova anche tra le pagine di Cenere, uno dei pochi romanzi deleddiani che abbia saputo spingere le proprie ambientazioni oltre il paesaggio brullo e sconfinato della Sardegna.


Durante la sua carriera di scrittrice, Deledda scrisse oltre cinquanta opere; pochissime raccolte di racconti, molte collaborazioni per i settimanali più celebri del tempo. La maggior parte hanno come protagoniste donne e giovani fanciulle in cerca di una propria emancipazione; personaggi forti, che fuggono dalle convenzioni sociali, dai giochi di potere e dal patriarcato desolante.

Personaggi che, come Grazia Deledda, si riconoscono in un ideale e lo perseguirono fino alla completa realizzazione.


Perché se è vero che nelle opere deleddiane ritornano sempre giovani che vogliono sovvertire la tradizione, altrettanto di frequente compaiono padri severi, madri autoritarie che non hanno alcuna intenzione di ribellarsi a un mondo costruito sulla loro inferiorità.

Cenere, però, si sviluppa attorno alla vita di un giovanissimo ribelle sardo: Anania, abbandonato prima dal padre; e poi da sua madre. Nello stesso modo in cui Cosima, alter-ego di una Deledda bambina, tenta il tutto per tutto per affrancarsi dalla propria famiglia e diventare una scrittrice; Anania, dal giorno in cui sua madre lo abbandona, deciderà di ritrovarla e prendersene cura per il resto dei suoi giorni.

Su Anania un sentimento prevale tra tutti, ed è l’orgoglio. Quell’orgoglio che chiunque abbia incontrato un sardo non avrà potuto fare a meno di riconoscergli. Tuttavia, l’orgoglio di Anania è più simile alla fierezza che alla testardaggine; a quella volontà di perseguire i propri obiettivi, di raggiungere sua madre; e anche dopo aver ricevuto da lei solo dolore e abbandono, decidere di aiutarla e di sacrificare se stesso.


È facile allora ritrovare dietro la volontà di Anania – di arrivare fino a Roma dove gli è stato detto che sua madre è stata avvistata – quello stesso desiderio di Deledda, di spingersi oltre i confini e di non porre limite alle proprie speranze.


Ma in mezzo all’intreccio ci finisce persino un amore, quello per la padroncina Margherita; e per conquistarla, Anania è disposto a tutto. Ma anche questo amore, come il desiderio di Anania, povero e avventuroso tra le terre di una Sardegna incantata, stride con gli usi del tempo.


Cenere potrebbe dirsi un romanzo animato dal coraggio; un romanzo che si inserisce perfettamente tra le tematiche care a Grazia Deledda. L’emancipazione, il bisogno di indipendenza; un popolo che spesso è sì fonte di supporto, ma che talvolta diviene la croce di esistenze impedite. Il popolo che diviene un personaggio fondamentale nella narrazione, poiché da esso origina il dramma e solo in esso si può risolvere. Il popolo sempre impegnato a decretare il proprio verdetto, che interpreta la natura e i suoi messaggi come meglio gli conviene. E insieme al popolo la religione: non una religione sana, piuttosto tribale, mistica, che viaggia sull’orlo dell’incredibile. Una religione che è parte integrante della vita di tutti gli abitanti dell’isola, che regola e governa. E che contribuisce a portare i romanzi di Deledda oltre terre conosciute, infondendo in quella natura, in quei paesaggi sconfinati, qualcosa di surreale e misteriosamente affascinante.


Infine la natura: che forse diviene in Cenere l’unico sollievo per l’essere umano. Poiché in essa, l’uomo ha la possibilità di ritrovare le proprie origini, mentre per tutta la vita non ha fatto altro che tentare di lasciarsele alle spalle.


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