Elias Portolu è un racconto che si colloca a metà tra due poli: il romanzo dell'Ottocento e quello moderno. Esso mantiene vive tutte le caratteristiche proprie del romanzo antico – mettendo in scena la rappresentazione di un personaggio, Elias Portolu appunto, che narra in prima persona le proprie rocambolesche avventure – e al contempo quelle del romanzo moderno.
Poiché se Elias Portolu è un sempliciotto, un pastore dell'entroterra sardo, la sua narrazione è affrontata come quella di un eroe, un Ulisse che torna in patria e che non è più la stessa persona che è partita. Persino la parabola che segue l'evoluzione del personaggio di Elias, lo conduce dall'essere un fallito, un anti-eroe, fino a divenire invece una specie di eroe.
Per queste e altre ragioni, per me, Elias Portolu è il romanzo del confronto, della transizione.
Questa collocazione a metà tra due generi, è del tutto comprensibile se ci si sofferma sul momento in cui Elias Portolu venne pubblicato per la prima volta.
Tra il finire dell'Ottocento e l'esordio del Novecento, Elias Portolu uscì a puntate sulla prestigiosa Nuova Antologia. Sembra evidente, osservando l'iter editoriale e il preciso momento storico in cui questa storia vede la luce, che la coscienza di Deledda attui una vera svolta.
Deledda compone un testo letterario che può considerarsi, come lo definisce Leandro Muoni nella prefazione dell'edizione Ilisso, «il prototipo del romanzo sardo moderno» poiché esso onora da un lato la tradizione (attraverso lo stile e la lingua adoperata, ma soprattutto attraverso il mito, le superstizioni, il ruolo predominante dei condizionamenti spirituali e ultraterreni nella storia di un singolo individuo), e da un altro la sperimentazione di quel nuovo modello narrativo, basato sulla centralità del personaggio e sulle sue peripezie sentimentali e psicologiche.
L'intento appare ancora più chiaro se si osserva l'esperienza biografica deleddiana.
È proprio in quegli anni, infatti che Grazia Deledda, in seguito alle nozze con un impiegato dell'Intendenza di Finanza, Palmiro Madesani (che diverrà in seguito suo agente letterario), si trasferisce dalla tanto criticata Isola, nella capitale del continente.
A nessun affezionato lettore della scrittrice, infatti, sfuggirà alla memoria il rapporto complicato tra Deledda e la sua terra di origine: le difficoltà che dovette affrontare prima di riuscire ad affermare il proprio destino; l'impossibilità di portare a termine le scuole, la volontà di non rassegnarsi a ricoprire un ruolo precostituito – di donna e di madre – e infine il successo raggiunto, il premio Nobel, rispetto a un'ostinazione che continuava a identificare Deledda come una traditrice, una voce che gettava ombra sull'isola, ma che invero ha saputo rappresentare la Sardegna e le sue genti sotto un punto di vista mai arbitrario. Che ha saputo raccontarne i punti deboli tanto quelli forti dell'isola; che ha voluto custodire nell'eternità della letteratura, la testimonianza della cultura tradizionale sarda.
Con le nozze e l'arrivo di Deledda a Roma, l'autrice sarda abbandona la negazione di scrittrice che a lungo ha dovuto subire, l'opposizione dei suoi conterranei alla propria vocazione, e volge lo sguardo verso la modernità. Una modernità da contestare, anch'essa, perché spesso fondata su precetti errati e falsi miti.
Ma la narrazione della vicenda di Elias Portolu non si esaurisce nella critica verso il tradizionalismo sardo; essa si erge a emblema di un cambiamento che coinvolge tutta l'Italia.
Questa tendenza verso due poli opposti ma affini, il vecchio e il nuovo, (il nucleo attorno a cui ruota tutta l'intera vicenda narrata, anche quando il confronto diretto tra l'isola e il continente si esaurisce), è rappresentata direttamente in Elias Portolu.
Elias, dopo esser stato mandato nel continente a scontare la propria pena in carcere, fa ritorno in Sardegna, dando vita a un evidente confronto tra la cultura antropologica sarda e la civiltà moderna; civiltà segnata da una mentalità nuova, borghese, e dai suoi inediti modi di comportarsi, agire, rapportarsi al reale.
La cultura sarda, in Elias Portolu, si fa rappresentante di uno squilibrio più ampio, che riguarda l'intero nostro paese: la curiosità dell'essere umano verso il nuovo, e il timore di infrangere i precetti secolari su cui si fonda la propria società.
Elias Portolu origina dunque dal confronto: tra la tradizione e l'inedito, tra la centralità della religione e la perdita di qualunque credo; un cambio di rotta che non riguarda solamente i perimetri entro cui si muove il nuovo modo di narrare, ma un cambiamento che riguarda l'essere umano in prima persona, a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento.
L'impegno deleddiano, fonda le sue radici proprio a partire da una volontà di eliminare un dislivello tra la cultura sarda e quella nazionale. Se da un lato, noi sardi abbiamo sempre rivendicato con orgoglio la nostra originalità, il nostro senso di estraneità dal Continente (per mentalità e tradizioni); dall'altro, non ci è mai piaciuto che a dirlo fossero gli altri, i continentali.
[...] si avverte oggi in giro, viceversa, una certa tendenza a rinnegare o contestare la storia condivisa, le radici comuni, le eredità, gli innesti, i prestiti, le embricazioni oppure a esibire un cosmopolitismo antagonistico e verboso: e tutto ciò in maniera magari sofisticata e capziosa oppure ingenuamente modaiola, che si colora di sciovinismo provinciale e narcisismo. Muoni L., nella Prefazione a Elias Portolu, Ilisso, Nuoro 2005 (p. 11)
Questo clima di incontro-scontro tra tradizione sarda e civiltà moderna, se così si può definire senza turbare l'orgoglio di nessun sardo, è il perno attorno a cui ruota la storia di Elias Portolu.
Elias Portolu è un giovane originario della Sardegna interna, quella a cui Deledda già ci abituati: l'entroterra fatto di natura sconfinata, lavoro e soprattutto legami umani, personali, lavorativi, per natura inviolabili.
Elias proviene dall'ambiente agro-pastorale, da cui ha dovuto separarsi per scontare la propria pena in un carcere della penisola. Al suo ritorno, però, nonostante a lungo abbia atteso quel momento, si ritrova spaesato: da una parte egli non sente più di appartenere a quel luogo, a quel modo di essere e vivere dei suoi compaesani; dall'altra, si sente insopportabilmente legato a quelle tradizioni, alle parentele, alle dipendenze e ai vincoli di quella società.
La storia è quella di un incesto tra cognati, quando tornato a casa, Elias scopre delle imminenti nozze del fratello Pietro, e nell'incontro con la sua futura moglie, si innamora di lei. Uno scandalo famigliare dunque, già presente in altri testi, come nell'Innocente dannunziano – nato anch'egli da un incesto, e che si fa testimone e narrativa del cosiddetto cambio generazionale; ma anche nell'esordio Pavesiano.
Allora, l'unica via d'uscita possibile per la salvezza spirituale di Elias è quella di tentare la strada della vocazione sacerdotale. Una strada che Elias concepisce come l'unica possibilità di salvarsi dal peccato, ma che tuttavia, non è quella che vorrebbe percorrere.
Per questo, Elias Portolu è un personaggio in continua tensione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; non solo il rappresentante di un popolo risentito dalla narrazione che ne è stata fatta, ma un personaggio morale, se così mi è concesso definirlo, perché si muove tra l'imperativo di dover sfuggire a tutti i costi alle malelingue e al chiacchiericcio generato da un'ipotetica scoperta del tradimento, e quello invece di prendersi i propri rischi e sottostare a un richiamo dettato dalla propria volontà, dalle proprie reali attitudini.
Un personaggio riuscito, estremamente moderno sotto molteplici punti di vista, che ancora oggi, a più di cent'anni dalla sua pubblicazione, ha qualcosa da dire a un mondo in continua lotta tra l'esigenza di apparire in un certo qual modo, e il desiderio di potersi svincolare dalla vana apparenza delle cose. Tra la necessità di disancorarsi dai limiti che l'essere umano stesso si è posto, e il timore di infrangere le tradizioni a cui si sente obbligato.