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Immagine del redattoreAldostefano Marino

Il mio noviziato, Colette

Aggiornamento: 22 dic 2021

Per rimanere incastrati nella letteratura francese, bisogna necessariamente passare da un personaggio indimenticabile: Colette. Per l’esattezza: Sidonie-Gabrielle Colette; fu una tra le scrittrici più libere che vissero a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Colette inoltre, fu critica teatrale e cinematografica, giornalista, sceneggiatrice, e negli ultimi anni di vita, persino estetista. Tuttavia, non solo per quella libertà espressiva, il suo nome ricomincia a sentirsi spesso, ma anche per l’estensione della sua produzione.


In vita, Colette compose ben cinquanta romanzi, tutti divenuti celebri e amati dalla Francia di quegli anni. Storie di donne, soprattutto, di amori finiti che nella loro sfuggevolezza raccontano molto della condizione delle donne e di Colette stessa. Ma più che raccontare, i suoi romanzi denunciano una realtà con cui Colette dovette fare i conti in prima persona.


Ultimogenita di un capitano di zuavi e della vedova di un ricco proprietario terriero, Colette trascorse la giovinezza in Borgogna. La sua infanzia – soprattutto grazie al forte libertinaggio della madre, Sidonie – fu lieta, ricca di affetto e attenzioni; e la maggior ragione, si trova oggi, proprio dietro la modernità di pensiero di Sidonie. Cresciuta nel mezzo della natura, sin da bambina ha accesso a moltissimi libri, e a sei anni già legge Shakespeare e de Balzac, e non si allontana molto dall’ateismo di Sidonie.

Dopo la prima infanzia lieta, nel 1893, quando Colette ha solo vent’anni, sposa Willy, e da quell’incontro esatto esordisce la narrazione del Mio noviziato.


Henri Gauthier-Villars, noto al grande pubblico con il nome di Willy, più anziano di quattordici anni della giovanissima Colette, è scrittore, editore, pubblicitario e molto di più. Sotto di lui, infatti, un antico Harvey Weinstein dirige una officina di schiavi (specialmente neri) che si impegnano a produrre un immenso quantitativo di opere inedite, date alle stampe con la firma di Willy. È per questo che alla fine Willy ha molto tempo libero, che di solito trascorre accompagnato da giovani donne, e personaggi illustri; la sua costante è la ricerca dello scandalo, del pettegolezzo e non decadere mai dall’olimpo della belle époque parigina.


Le ragioni per cui Colette si unì a lui sembrano ovvie fin dall’esordio. Se da un lato sarà proprio Henry Gauthier-Villars a scoprire i racconti di Colette e a spronarla a scrivere ancora, a comporre nuovi romanzi, sempre da pubblicare sotto il nome di Willy; dall’altro, ogni pagina del Mio noviziato compare ricca dell’amore e della dedizione che Colette era in grado di provare per Willy.


Che cosa potesse attrarre in una così giovane fanciulla, l’assenza di un uomo potente, se non i suoi denari e il potere? Questo è stato ciò che le persone hanno pensato a lungo di lei. Ma Colette era molto di più che una ragazzina in cerca di fama, perché non è in quel modo che la storia inizia tra loro. La loro relazione emerge dall’amore, fiorisce nell’attrazione fisica e in una gelosia morbosa che sempre proverà per il marito.


Di quell’attrazione provata da Colette per Willy – se in qualche modo se ne sente l’esigenza di formalizzarla a ogni costo – ciò che dovrebbe essere messo in risalto è piuttosto la nuova lettura che Colette dà all’amore e all’eros.


Dopo che per lunghi tempi, in narrativa – ma anche nelle forme scritte e orali più rispettabili – l’eccitazione femminile venne del tutto privata della sua importanza. Colette, in mezzo alla natura sconfinata, fu la prima a riconoscere nella donna la capacità di provare eccitazione, di emozionarsi lei stessa e di non essere invece, un puro oggetto vivente atto a soddisfare l’uomo.

Rassegniamoci a dire che se tante fanciulle mettono la mano nella zampa pelosa, tendono la bocca verso la convulsione ingorda di una bocca esasperata, e guardano serenamente sul muro l’enorme ombra maschile di uno sconosciuto, e perché la curiosità sensuale sussurra loro consigli prepotenti. In poche ore un uomo senza scrupoli fa di una fanciulla ignara un prodigio di libertinaggio, usa a ogni disgusto. Il mio noviziato, Colette, Adelphi, Milano 2007

All’interno di questa citazione estrapolata dal Mio noviziato si leggono immediatamente gli intenti dell’intera opera di Colette. La sua volontà è prima tra tutte quella di andare oltre certi limiti e barriere; tuttavia, Sidonie-Gabrielle non fu affatto femminista – nel senso stretto in cui lo intenderemmo oggi. Anzi; sempre indisposta dalle presenze femminili, quasi costretta a un sentimento di insufficienza davanti a qualsiasi altra donna, Colette dichiarò numerose volte di non andar d’accordo con le femministe.

Però, la sua opera ha parlato (e parla ancora) più chiaramente di quanto fece Colette. I suoi ideali – tutti votati alla contrarietà di quelli conformistici del tempo; i suoi tre amanti, e in particolare la prima serie di gran successo firmata da Willy, Claudine, urlavano chiaramente la necessità di denunciare le proprie turpe al mondo intero. E se all’inizio, l’anonimato e la nascita di Claudine divertivano Colette come «una farsa un po’ indelicata», a pochi anni di distanza dal matrimonio comincia a sentirsi privata delle proprie libertà.


L’unico pensiero di conforto allora va a Sidonie. Madre amata e di cui sempre rimpiangerà la vicinanza.


Sidonie a cui dedicherà anche un libro, prima di morire, Sido è sempre rimasta viva nel cuore di Colette. Colette desiderò tornare da lei anche quando raggiunse il successo, e mai smise di sperare che le loro strade si sarebbero incrociate. Nei suoi confronti, per anni non fece altro che che fingere: imitatrice di una felicità incoraggiata solo dai pagamenti che Willy le faceva per i suoi libri. Sido torna spesso anche all’interno del Mio noviziato, inserendosi all’interno di una narrazione che è fortemente autobiografica ma che si prefigge l’idea di costruirsi come un romanzo.

Il mio noviziato non è semplicemente utile agli amatori di Colette – o a quelli che, destinati ad amarla, non l’hanno ancora conosciuta; in alcune parti diventa un saggio critico alle opere precedenti, che con sagacia e onestà contesta i propri scritti e ne traccia un profilo, evidenziandone i punti buoni e quelli più deboli.


Ben presto, però, quell’illusione di libertà dettata dal potere, era destinata a infrangersi tra le pareti di una «vera prigione». Sempre più incoraggiata a far presto, a portare a termine i suoi scritti e a dar vita a idee migliori, Colette veniva addirittura chiusa a chiava in un «laboratorio», per la quale libertà doveva «esibire pagine scritte». Ma ecco che, subito dopo questi racconti, Colette si smentisce:

Ma il rispetto della verità strampalata, e un sapore un po’ gotico, assegnano loro un posto qui. Dopotutto non c’erano sbarre alla finestra, e potevo benissimo tagliare la corda. Pace dunque a quella mano, oggi morta, che non esitava a girare la chiave nella toppa. A lei devo la mia arte più sicura, che non è quella di scrivere, ma l’arte domestica di saper attendere […]. Ho imparato soprattutto ad avere, fra quattro mura, quasi tutte le mie evasioni, a trasgredire, comprare, e infine, quando mi piovevano addosso i «presto, per dio, presto!», a insinuare: «Forse in campagna lavorerei più in fretta…» Il mio noviziato, Colette, Adelphi, Milano 2007

In qualche modo perciò, Willy, a lungo si trasforma in una sorta di protettore. È proprio la protezione, forse, ad attirare la giovane Colette.


Ma sempre più la gioia si trasforma in dolore; e la pazienza in un’estenuante attesa all’infinito. Il pensiero di fuggire da una parte le stuzzica la mente, ma dall’altra, farlo sarebbe impossibile.

Come si fa a fuggire? Noialtre ragazze di provincia avevamo dell’abbandono coniugale, intorno al 1900, un’idea enorme e poco maneggevole, costellata di gendarmi, di bauli convessi dei velette impenetrabili, senza contare l’orario delle ferrovie… Il mio noviziato, Colette, Adelphi, Milano 2007

Ma alla fine, offuscata dalla paura di spingersi oltre, quell’uomo che aveva sposato le appariva quasi come un dono. Egli – dichiarava ancora Colette – «esercitava la tattica di occupare senza tregua un pensiero di donna, il pensiero di parecchie donne». Willy è davvero l’uomo amato da Colette, seppur nella stranezza dall’esterno di quella storia, eppure non fu lei alla fine a lasciarlo.


Fu proprio Willy a chiudere con lei quando Colette decise di mettere più calma e attenzione nelle proprie storie. Come se Colette – per tutto quel tempo in cui gli aveva prestato il suo ingegno –, non fosse esistita per altro che sfornare libri, scrivere come una moderna ghost-writer, e interpretare, nel frattempo, la parte della moglie perfetta. Bella, carina, rapida a spogliarsi e giovanissima. Ma soprattutto completamente soggiogata a lui.


E in quell’unica vendetta che si legge alla fine di questa opera-testimonianza di Colette, riscatto che avrebbe voluto per sé: essere lei a lasciarlo, Il mio noviziato non sarà più in grado di abbandonare la vostra memoria.


Un libro scritto come se fosse, appunto, un qualsiasi romanzo di Colette: pregno di descrizioni naturalistiche, di amore e gelosia; acuto e ironico in ogni sua sfumatura; una storia, di finzione in alcune parti – è Colette la prima a riferirne le bugie – e la testimonianza di una condizione femminile di frequente danneggiata. E inoltre, la narrazione di un personaggio di cui, se si cercherà l’opera omnia da qualche parte, si faticherà a leggerne l’intera lista dei soli titoli prima che l’occhio non si stanchi.



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