Nel 1942, grazie alla casa editrice Einaudi, vide la luce il primo romanzo di Natalia Ginzuburg, La strada che va in città. In copertina, sopra l’illustrazione di Alfredo Menzio, non compare il nome della sua scrittrice, ma uno pseudonimo, Alessandra Tornimparte. Non si tratta di un volumetto di più 99 pagine, che da una parte viene fortemente esaltato dalla critica; mentre da un’altra demolito.
Natalia Ginzburg, il cui cognome natale era Levi, non potè firmare i suoi primi racconti per via delle persecuzioni anti-razziali. Il titolo, non fu lei a trovarlo, ma suo marito Leone, perché quando cominciò a scrivere quel romanzo che sognava di scrivere, il titolo non le venne in mente subito. La strada racconta la storia di una donna che sceglie di percorrere la via facile del matrimonio d’interesse. È una donna a cui ci affezioniamo, empatizziamo con lei perché triste è la sua sorte.
Non solo: la strada che va in città, era quel lungo cammino che collegava l’Aquila e Torino, quando Natalia vi ci andò per rifugiarsi con il marito per sfuggire alle persecuzioni naziste.
«Aspro, pungente, pieno di sapori», così lo definisce Garboli nell’introduzione di Cinque romanzi brevi (1993). «Un libro senza rughe», che non perde mai di freschezza. E difatti, a distanza di ottant’anni, La strada che va in città è una storia quanto mai contemporanea.
Dopo la morte di Leone, Natalia trova lavoro in Einaudi, a Roma e la sua firma compare per la prima volta nella poesia Memoria (dedicata a suo marito), l’8 novembre 1944, sulla rivista “Mercurio”. Il cognome con cui decide di firmarsi, non sarà Levi neanche stavolta. Ma quello del suo defunto marito, che manterrà anche quando si unirà al suo successivo marito.
Prima edizione, La strada che va in città, Einaudi, Torino 1942
Nel 1945, vede la luce l’antologia della Strada, comprensiva di Un’assenza, Casa al mare e Mio marito e con il nome dell’autrice. Alla riedizione, comprensiva dei suoi primi tre racconti brevi, è proprio la Ginzburg a lavorare, dalla sede Einaudi romana.
Quattro storie, molto distanti tra loro, ma sottilmente affini. Sono ambientate in luoghi che non hanno spazio, né nome, e che esistono solo nella mente di Natalia. La sua idea, infatti, era quello di voler donare ai propri romanzi un respirò di mondanità, un connubio tra il Nord e il Sud, di dialetti, voci e modi di fare tipici di tutta l’Italia, e non solo di quella strada in cui vengono ambientati.
La strada era, dunque, la strada che ho detto. La città era insieme Aquila e Torino. Il paese era quello, amato e detestato, che abitavo ormai da più d’un anno e che ormai conoscevo nei più remoti vicoli e sentieri.
I personaggi della Strada, invece, sono persone che provengono dalla vita dell’autrice. Come lei stessa spiega nella Prefazione, Natalia trae molto spunto dalla realtà, non per le storie, quanto per le facce e i tipi che abitano i suoi racconti. Sono dodici, e ognuno di loro non è soltanto uno. Non hanno i cognomi – a cui lei è sempre stata avversa. Inizialmente le sembrano molti, forse troppi e va nel panico.
La ragazza che dice “io” trauma ragazza che incontravo sempre su quei sentieri. La casa errata sua e la madre era sua madre. Ma in parte era anche una mia antica compaia di scuola, che non rivedevo da anni. E in parte era anche, in qualche modo oscuro e confuso, me stessa.
La strada che va in città viene composto dalla Ginzburg con l’intento che ne venga fuori un romanzo lungo, ma teme di non avere «abbastanza fiato».
Natalia era sempre ossessionata dall’idea di creare un romanzo, di dare vita a qualcosa di compiuto, di cui potesse andare fiera. Cominciò a scriverlo con incertezza, ma poi tirò «dritto d’un fiato». Quando lo finì, scopri che dentro ci fosse qualcosa di vivo, che «nasceva dai legami d’amore e di odio» che la legavano a quel paese, e capì che non avrebbe mai dovuto scrivere di cose che le erano estranee o indifferenti. Perché era fiera del suo raccontare solo se lo faceva di cose e persone che amava.